giovedì 23 dicembre 2010

Atletica Leggera

1941
Raffaele Caravaglios (4°)


Raffaele Caravaglios (a dx) corre i 200 metri piani


Palermo
Gran Premio Giovani - Raffaele Caravaglios 1° classificato


mercoledì 15 dicembre 2010

Indagine topografica dell'Agro Mazarese


2001 - Sala Conferenze Hopps Hotel  - Presentazione del Volume 
Giuseppina Mannina, Bartolomeo Calafatp, Sebastiano Tusa, Enzo Gianformaggio


Sebastiano Tusa, Silvio Manzo


Salvino Catania

Salvino Catania merita un posto di rilievo in questa blog. Sia per il suo vissuto sui generis, sia per le sue particolari qualità artistiche. Voglio ricordarlo riprendendo qualche articolo pubblicato sul mio MazaraCult e su altre testate. Oltre che un estimatore (non incondizionato) della sua "arte" e del suo modo di affrontare la sua grama esistenza, sono stato anche il suo medico di "fiducia" per quarant'anni e lo conosco anche sotto altri aspetti e lo definirei un paziente cronico ma soprattutto "un uomo difficile". Se sono riuscito ad avere la sua fiducia ed avere con lui un dialogo così lungo per tanto tempo, e ininterrottamente, significa che sono stato abile, anche se, volte, mi sono sentito come un domatore, anche se benevolo. Ma ho avuto sempre un rapporto "sincero" per quanto si possa averlo con una figura come la sua, che in certi momenti di " vivida lucidità" tira fuori perle di saggezza dal suo cilindro virtuale da lasciarti di stucco.
(1945 - 2013)

L'orizzonte culturale nei segni di Salvino Catania
Una convenzione borghese - dura a morire - associa all’arte, a tutte le arti, il paradigma dell’invenzione, della demiurgica e misterica creazione dal nulla. Non ci sarebbe originalità senza ideazione e produzione del nuovo o di quel che è sussunto come tale. Sono i cascami delle filosofie idealistiche, l’eredità postuma di una critica estetica che riduce l’espressione artistica all’ineffabile soffio dell’innovazione, all’irruzione del discontinuo, alla celebrazione delle emergenze inventive. Ma come nella storia non tutto è mutamento e molto è invece permanenza, così nelle arti nulla davvero si crea e nulla si distrugge, non diversamente dal principio lavoisierano applicato all’universo della fisica.
A livello delle strutture profonde, l’arte come tutti i fatti culturali è prima di tutto persistenza, iterazione, invarianza. Nessun cambiamento, per quanto radicale, può fare a meno delle macerie che pure ha prodotto. Nessun artista può ignorare quanto è stato accumulato e depositato nel patrimonio delle idee, degli stili e delle tecniche che lo hanno preceduto. L’originalità non sta tanto o semplicemente nella gratuita cesura o nella mera dissonanza con la tradizione, come ingenuamente si illudevano e rivendicavano le avanguardie storiche del secolo scorso, quanto piuttosto nella capacità di rielaborare la lezione che viene dal passato, di presentificare quelle voci lontane fatte di linee e di colori, di volumi e di segni, di umori e di codici pittorici.


Quando guardiamo un’opera di Salvino Catania vi possiamo leggere quella tessitura di fili invisibili che connettono in un originale e inestricabile ordito esperienze artistiche illustri, scuole di maestri riconosciuti, culture figurative ben identificabili. Un mélange di allusioni, di riferimenti, di citazioni si addensano sulle sue tele, si dispiegano e si aggrovigliano, si contaminano e si contraddicono. A ben guardare, vi possiamo ritrovare i frammenti atmosferici di Sanfilippo sovrapposti agli ideogrammi di Capogrossi, il neoplasticismo di Mondrian ibridato nel linguaggio dei colori di Kandinskij, illuminazioni di evocazione surrealista accanto ad esplosioni decisamente naturalistiche,una vocazione all’astrattismo declinata nelle forme dell’espressionismo alla Rouault o del calligrafismo alla Franz Kline. Salvino Catania non dialoga con la realtà fisica ma con la storia dell’arte contemporanea. Quando le sue citazioni non sono pure e sbrigative repliche, i motivi figurativi che hanno attraversato lunghi percorsi di ricerche artistiche giungono a noi con nuova ed epifanica forza comunicativa. Nella critica letteraria questo gioco si chiama intertestualità, quando l’autore nasconde tra le pagine, con consapevolezza teorico-metodologica, un sistema implicito di riferimenti incrociati tra opere di noti scrittori. L’esito può essere arido e concettoso artificio. Ma Eco ci insegna che si possono raggiungere risultati di estrema raffinatezza e originalità. Salvino Catania si muove dentro questa dimensione in un rapporto nevrotico e conflittuale con la pittura, che per lui è letteralmente, fisicamente, materialmente, necessità esistenziale. Dissolti i fiori e le conchiglie, le palme e le agavi, i volti e le nature morte che hanno illuminato le sue tele tra gli anni settanta e ottanta, i soggetti sono diventati negli ultimi anni sempre più connotati da una tensione continua tra linea e colore che sembrano sfidarsi in un infinito e irriducibile corpo a corpo. Tra le suggestioni informali e le fascinazioni della pop-art, Salvino studia le inferenze e le interferenze dei segni, è impegnato in una ricerca di sintassi semiologica, nella moltiplicazione di unità iconiche di base che si combinano nello spazio secondo libere mozioni e irriflesse associazioni percettive. Se è vero che l’ipertrofia segnica è uno dei dati fondanti dell’immaginario del nostro tempo, le tele di Catania ci aiutano a interpretarne i labirintici percorsi. L’arte genera l’arte e la rende davvero intelligibile. Salvino Catania, forse senza saperlo e sicuramente senza volerlo, è un contemporaneo che nella periferia del mondo occupa lo spazio dell’ammutinato. Nel panorama del mercato artistico sempre più affollato di pittori improvvisati e «inventati», privi di personalità e di cultura figurativa, Salvino possiede una non comune conoscenza degli studi storici e della letteratura critica, una originale capacità di riplasmare e risemantizzare la più nobile tradizione pittorica. Davanti ai suoi ultimi quadri, che sempre più sembrano elementarizzare le linee e accentuare le sfumature cromatiche, si allunga l’ombra di un persistente interrogativo ovvero di un antico rammarico: quanto di potenzialmente inespresso resta irretito e stretto nell’angustia asfissiante della provincia e nell’urgenza quotidiana del presente?

Antonino Cusumano

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Riceviamo e pubblichiamo: (pubblichiamo il commento n.2 in questo spazio, perchè quello dedicato a tale scopo, in questo caso è insufficiente).
Caro Pino Catalano, su MazaraCult leggo con vivo interesse l'appassionata nota critica che il prof. Antonino Cusumano dedica a Salvino Catania. In chiusura, noto che lo studioso invita anche la Città di Mazara del Vallo a prestare maggiore attenzione all'opera di Salvino Catania, dedicandogli una mostra. A tal proposito, assieme ai miei più cordiali saluti, gradirei gli si facessero avere i due files che allego alla presente. Grazie e a presto
Vincenzo M. Corseri



(Cliccare sulle immagini, per una migliore lettura)

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Commento n.3 Ho letto il pezzo interessante di Tonino su Salvino e, al fine di contribuire ad alimentare il dibattito sul valore della sua attività artistica, in allegato, troverai un articolo che ho fatto in occasione della sua ultima personale sul tema del "sacro". Ciao
Giacomo Cuttone


Passione delle forme*
In mostra le opere sacre di Salvino Catania
“L’arte è un’impresa pericolosa”.
S. Poliakof
Interessante idea quella di don Orazio Placenti, fatta propria dalla Diocesi, di aprire la Sala Ottagonale della Cattedrale di Mazara del Vallo, all’arte e , in particolare, a quella di Salvino Catania. Interessante almeno per due motivi: il primo è quello di proporre una iniziativa di ampio respiro in una Città dove troppo magra è l’offerta di proposte artistico-culturali, il secondo è quello di rendere omaggio ad un artista poco baciato dalla fortuna e che dell’arte ha fatto una ragione di vita. La Mostra, a cura di Sabrina Caradonna e Vincenzo M. Corseri, s’intitola Forme della Passione – Arte e spiritualità nell’opera di Salvino Catania, e raggruppa opere aventi come soggetto quasi esclusivamente Cristo e la croce. Parlare dell’attività artistica di Salvino, pittore eclettico ma che rifugge dall’eclettismo, è cosa alquanto ardua. La sua produzione quasi febbrile si nutre degli imput che continua a ricevere dalla conoscenza delle Avanguardie del Novecento, dall’Impressionismo all’Espressionismo fauve, dall’Astrattismo all’Informale segnico e materico, operando la funzione di medium. Ma, per non perderci nei mille rivoli dei linguaggi artistici dell’arte moderna, torniamo alle opere in mostra. Il tema della passione come sofferenza del corpo e dello spirito, dolore o tormento fisico come martirio, così come la passione come sentimento intenso che influisce in maniera determinante sui pensieri, le azioni e gli atteggiamenti dell’uomo, l’inclinazione, l’interesse o la predilezione spiccata e, a volte, esclusiva, accomuna la vicenda di Cristo alla vita vissuta dall’artista. Seguendo il percorso dei curatori della mostra, intraprendiamo uno straordinario viaggio che va dall’iconologia medioevale bizantina, ai colori come “cartucce di dinamite” (per ricordare un’affermazione di Andrè Derain); sostiamo di fronte ad alcune opere realizzate con segni neri che marcano i contorni, dove la figura s-figurata, collocata fuori dal tempo e dalla storia, s’impregna di spiritualismo nell’uso evocativo e simbolico dei colori di rouaultiana memoria; per ormeggiare, infine, alle figure delineate da segni filiformi che s’infittiscono o si diradano seguendo la trama di relazioni fra loro e lo spazio che le corrode, opere queste vicine alle problematiche dell’esistenzialismo artistico e filosofico (Alberto Giacometti e Jean Paul Sartre), lì dove, per contrappunto, Dio è la "passione inutile" dell'uomo sartriano o ai confini con l’art brut di Jean Dubuffet. Dalle opere di Catania il Cristo che ne viene fuori ha somatizzato il dolore e, nell’espressività dei suoi occhi, cogliamo soltanto meraviglia, stupore.
* pubblicato su Mazara c’è, anno I, n. 6 del 28 aprile 2006



La solitudine è la sua compagna (foto scattata da me)

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Uno dei suoi tanti aforismi

"A volte mi dimentico di essere vivo"





IL PITTORE VAGABONDO CHE HA DIPINTO MAZARA
04 febbraio 2012 — di Tano Gullo

Se ha fatto il pittore il merito, o la colpa, è della meningite. Perché i medici al padre angosciato che si chiedeva che lavoro potesse mai fare il figlio da adulto, visto che la malattia avrebbe lasciato delle conseguenze nel suo cervello, risposero: «Gli faccia fare il pittore. Si sa, gli artisti sono tutti un po' strambi, in questo modo lui potrà camuffare le sue stranezze nella creatività dell' arte». Così fu, il ragazzino viene sommerso di tele, pennelli e tubetti di colore, che giorno dopo giorno diventano la sua vita. Ora Salvino Catania, 66 anni, saltella da un punto all' altro del centro storico di Mazara a recitare le sue stramberie. Sembra la reincarnazione di Ligabue. Parla in modo forbito, farcendo il dire di citazione dotte, spesso in latino, discetta di arte e interroga gli interlocutori con domande su questo o quel pittore. Per poi emettere subito la sua sentenza: «Ignorante!». Come Ligabue, vaga con il corpo e divaga con la mente, vende i suoi quadri per mettere la pentola e recita la sua parte ogni giorno nella bellissima piazza del Municipio di Mazara, muovendosi come un gatto e ogni tanto piroettando come quel Satiro che è esposto pochi metri più in là. Un giorno dietro a lui per capire se c' è o ci fa. Il dubbio resta. L' impressione è che passa con la velocità del pensiero dal mondo della logica a quello dell' assurdo, e Ionesco lo cita spesso. Come se avesse imparato una parte per rappresentarla nella piazza palcoscenico del nostro teatro quotidiano. In quella vita come rappresentazione teorizzata da Erving Goffman, che ancora "scorre" in molti centri isolani. Alterna effluvi di parole a smorfie di disappunto, a sguardi penetranti che rendono loquace il suo pensiero. Le domande lo infastidiscono e glissa. Poi però, magari dopo mezzora, risponde al quesito di prima, magari quando gli si chiede altro. «Non voglio più dipingere- dice con piglio severo - Sono stufo di prostituirmi. L' artista è una puttana. Dipinge, scrive e recita per compiacere qualcuno. Io ho chiuso. Ho svuotato il vaso di Pandora della mia testa, pieno di pensieri persi. Tutti i mali li ho gettati via nei colori, ora basta». Ovunque vai a Mazara, trovi appese le tele di Salvino, nei bar, in farmacia, nei circoli, nelle botteghe. Solo nella Galleria "Sicilia" allestita nei corridoi del primo piano del Municipio ci sono almeno una ventina di sue opere. Si dice che finora ha dipinto settemila quadri, quasi tutti informali, astrattamente colorati. Lui conferma e smitizza: «Io studio i maestri e mi immergo nelle loro tecniche. L' arte è un continuo copiare. Non dico che io copio, ma un giorno mi ispiro a Pollock, un altro faccio colare sulla tela il colore come Schifano e ne dirigo l' impasto di cromature. E un altro giorno ancora guardo i quadri di Seurat e vado con i colori». Ci conduce nel bar della piazza e ci indica un quadro dietro al bancone: «Vedi questo è in puro stile pointellisme. Come Seurat». Abita in una casa diroccata, non ha alcun quadro da parte. L' unico lavoro fisso nella sua vita, dopo il diploma conseguito al liceo artistico, è stato qualche anno d' insegnamento. Ci conduce in giro per il centro storico continuando con le sue citazioni e le sue sentenze. «Come diceva Picasso l' importante è non dipingere con gli occhi, ma con il pensiero. Naturalmente per tradirlo. Gli occhi vedono meno della mente. Io dico queste cose e per la gente sono pazzo. E ogni tanto mi fanno il ricovero di prepotenza. Vengono i vigili, mi caricano sulla macchina e mi portano nei reparti psichiatrici. Questa è la mia vita». Raccatta una cicca l' accende e fuma. Poi ne prende una dal pacchetto fa qualche "tiro" e la mette da parte. Sta recitando la parte del "fuori di testa"? Spiazza con questo suo andirivieni dal "paese" della stramberia, qualche volta dilettando i concittadini, altre volte irritandoli con la sua irriverenza. A Mazara le piazze continuano e restare teatro, un tizio legge una poesia, una donna salmodia una canzone in arabo. E Salvino è un moto perpetuo di performance in questi angoli dove un tempo si aggirava il cosiddetto "uomo cane" che spinse Sciascia fin lì nell' illusione che potesse trattarsi di Ettore Majorana in fuga con la sua coscienza. Ad un certo punto Salvino ci conduce nel cortile dell'ex convento dei Benedettini, fresco di restauri che presto diventerà un museo. Accanto, la Chiesa di Sant' Ignazio senza tetto, come lo Spasimo di Palermo, destinata a trasformarsi in una sala per concerti a cielo aperto. Salvino si aggira tra le nicchie. Mi bombarda con una serie di domande su svariati artisti. Confesso la mia ignoranza. Esulta. «Bravo siamo tutti ignoranti. Fin dai tempi di Socrate. So di non sapere, diceva. Anche io sono ignorante. Leggo studio, ma resto ignorante come tutti». Intorno al convento, vicoli e piazze tornati a risplendere dopo gli interventi del Comune guidato da Nicola Cristaldi. Sta peggiorando il tempo e da poco lontano arriva il rumore delle onde agitate in quel lungomare ritornato alla vita dopo anni di abbandono. Dopo il "patto dell' ignoranza" Salvino si apre e racconta la sua vita. L' infanzia segnata dalla meningite, le cure, i colori, la solitudine. «La mia è una famiglia agiata. Mio padre aveva una cantina. Sono io che ho scelto la libertà. Ma questa vita non mi pesa. Finora vendevo quadri e campavo. Quaranta, cinquanta euro ognuno. L' altro giorno mi hanno detto che a Sciacca hanno rivenduto un mio quadro seicento euro. Sarà vero, boh. Debbo dire che il Comune e qualche amico mi aiutano con dei soldi. A me bastano. Ora che non dipingo più non so come farò. Certe mattine mi sveglio e non so se sono vivo o morto. Poi apro la porta ed esco. Sono nato per stare nella strada». Si solleva il berretto di lana dalla fronte e mi fissa con i suoi occhi celesti, fa una smorfia con la bocca sdentata e sbotta: «A che serve prendere appunti, devi scrivere solo quello che ti resta nella mente. Solo quello è importante. Come i colori, solo quelli che servono, quelli in più sono inutili». In tanti a Mazara sono convinti che con Salvino diventeranno ricchi.E in tanti hanno fatto incetta dei suoi quadri. Salvino ci ride: "Aspettano che muoio. Io morirò - ripete a più riprese - ma dopo tanti". Ti diverti a recitare la parte dell'artista maledetto e fuori da ogni umana logica?, gli chiedo alla fine. Ride: "Debbo dire che mi piace buffuniare. Amo scherzare. Mi fa ridere chi prende le cose sul serio. Ho cominciato così e poi ci ho preso gusto. Ma attenzione perché pazzo lo sono davvero". 


A Salvino Catania
Salvino 
Nato come una nuvola 
Per portare pioggia e ristoro ai campi 
Inariditi, gialli, bruciati e consumati, 
Con uno sbaffo di colore grigio più scuro 
In una parte di te, che ha donato ombre 
A volte troppo forti e quasi amare. 
Tu, appena uomo, ragazzo nel cuore, 
Per anni guardi fisso negli occhi 
il mondo per scorgervi l’anima! 
Artista da una vita soltanto, 
accumuli pezzo dopo pezzo, onda 
dopo onda, goccia e ancora gocce, un 
mare di colori, sprazzi di filosofia, tratti 
e cocci di reliquie, pagine di sogni. 
Mago, hai volato nel tuo cielo mai con 
ali bruciate, il tuo pensiero, azzurro sulla tela, 
ricco, mai muto davanti al mistero della vita, 
composto al cospetto del mistero della morte 
stupito, pennelli come lamento, poesia dell’uomo 
che aspetta fiori di primavera… quando piove! 
Lungo la strada dei tuoi anni, gemiti, 
pianti, sorrisi come foglie carnose d’estate 
come foglie sparpagliate d’autunno. 
Lungo la strada dei tuoi anni d’arte, voce 
Che raccoglie colori, speranze e pietà, 
fragili cristallini sogni…suoni d’amore. 
Non chiedere mai all’uomo che incontri 
se vuole come te modellare le forme 
della vita a modo suo! Metteresti in libertà 
gli animali dello zoo umano da secoli 
chiusi nel recinto della pochezza e della negazione. 
Bravo chi come te modella il mondo a modo suo … 
Abolito il libero arbitrio, compone e scompone amore, lealtà 
E la pace, frugando nell’anima, lottando per vincersi, 
per conoscersi… Per poi alla fine della strada del padre 
trovare che è bello restare con i propri errori e … 
non sentirsi mai sconfitti. 
                                        Liliana Pinta, 4 Marzo 2001

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Un vita per l’arte
Omaggio a Salvino Catania, opere in mostra al Lucasdesign
A pochi giorni di distanza dalla sua tragica morte, lo show room Lucasdesign (Mazara del Vallo, Corso Umberto I 47), grazie al contributo in termini di opere di amici ed estimatori, rende omaggio all'artista mazarese Salvino Catania con una mostra temporanea (dal 14 al 31 dicembre). L’esposizione ri-percorre le tappe più significative della sua ben più ampia produzione artistica.

Una vita, quella di Salvino – a dispetto di quanti, anche in pagine prestigiose, lo hanno paragonato al pittore naïf Ligabue – dedicata all’arte, facendone, negli anni, forse, l’unica ragione della sua vita, il suo mondo; senza di essa, sicuramente, non poteva vivere.
Artista tutt’altro che “ingenuo” (naïf, appunto), profondamente colto, ha esplorato e indagato tutti i linguaggi dell’arte moderna e contemporanea; dall’Impressionismo alle Avanguardie storiche del primo e del secondo Novecento, fino alle più recenti e, ormai, storicizzate “nuove coniugazioni artistiche” (es. l’Arte Concettuale di Piero Manzoni). Il cammino creativo-estetico-artistico di S. Catania, come testimonia la storia della sua produzione pittorica, è stato un inquieto ma originale transito rielaborativo delle forme.

In questo suo viaggio dentro l’arte, dopo averne interiorizzato i linguaggi e le tecniche, il suo sguardo volgeva altrove, sempre alla ricerca di nuovi stimoli. La sua funzione, rispetto a quanto di buono circolava nel campo delle arti visive, è stata quella di una mano guidata dal saper-fare (po-i-etico) dell’arte consapevolmente critico e proprio. Sapeva della memoria storico-artistica e, insieme, aveva la capacità e la potenza di medium ri-creativo stilistico personale. Sicuramente – come ebbi (scusate l’autocitazione) a scrivere in Passione delle forme (Mazara c’è, anno I, n. 6 del 28 aprile 2006), Salvino è stato un “pittore eclettico” non eclettico, ovvero una figura d’artista paradossale. La sua tendenza, in primis, era quella di esplorare le “ispirazioni” e le realizzazioni delle poetiche pittoriche più diverse, ma come una traccia; una traccia dalla quale, poi, infatti, si staccava e segnava con passo sicuro e tratti propri la biforcazione artistica che ne esprimeva il mondo esistenziale che lo travagliava. La sua pittura, infatti, mostra tutt’altro che spontaneismi; la sua mano, in una con i tracciati pre-figurati a volo mentale, come si può leggere (tra le righe del suo fare artistico), è tutt’altro che priva di coscienza stilistica controllata. Il suo repertorio iconografico è ricco e variegato, nulla gli era estraneo. Alcuni temi della sua pittura non sono avulsi dalla vita stessa (vissuta) dell’artista: basti pensare alle tele con i “cristi”. Qui la “sofferenza del corpo e dello spirito, il dolore o il tormento fisico come martirio, così la passione come intenso sentimento, che influisce in maniera determinante sui pensieri, le azioni e gli atteggiamenti dell’uomo” (sempre in Passione delle forme), diventano cartucce di dinamite (come direbbe Andrè Derain). Sono segni neri e filiformi che marcano i contorni, che s’infittiscono o si diradano seguendo la trama di relazioni fra loro e lo spazio che le corrode, figure s-figurate (l’esistenzialismo artistico e filosofico di Giacometti e Sartre). Qui, in questi spazi cristologici, c’è tutta la simbiosi (ma travagliata e macerata) con un dolore che è, prevalentemente, la denuncia di una vita che non dà, quasi leopardianamente, quello che ti promette “allora”: nel sorgere al mondo! La linea di demarcazione tra arte e vita, pertanto, si con-fonde, s-fuma, si assottiglia, diventa impercettibile, scompare.

Salvino, sicuramente, è stato un pittore tormentato, come i cosiddetti “pittori maledetti” (Modigliani, Soutine, Utrillo, Derain, Valadon ed altri che, a Parigi, negli anni a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, frequentavano i quartieri di Montmartre poi di Montparnasse, tentando la sorte e vivendo al di fuori degli schemi e delle regole), ma è stato anche un soggetto inimitabile e di grande energia vitale: squattrinato, in-quieto, le regole non lo imprigionavano; il distacco e il dissenso erano piuttosto il propellente che alimentava la sua carica eversiva di pratica e senso quotidiana.
Mi piace chiudere questa breve nota con alcuni versi di una poesia che l’amico e poeta Rolando Certa (anche lui scomparso) ha dedicato al nostro pittore, Savino Catania. La poesia è Non è vanagloria (a suo tempo, fu scritta da Rolando dopo un’intensa chiacchierata notturna in Piazza della Repubblica):
Ma le tue immagini, roventi o delicate, / i miei versi, che corrono tra sogno e realtà, / una notte soffrivano d'insonnia. / Gemevano nel vuoto. / L'angoscia incombeva. / (…) E così ci siamo rinnovati. / Tu con le tue "arenarie", / giganti dall'arsura millenaria, / angoscia illimpidita, fatta stile; / tu con i tuoi paesaggi brucianti, / tra sole, fuoco e magia, / ed io coi miei versi seguendo le chimere dell'amore, / cieli di sentimento, praterie di dolcezze fuggite; / (…) / sconfinare oltre i limiti reali, / dove i cieli sono azzurri, / ed esplodono i sogni, / (…) / un'avventura nuova, umana. / (…) / Amico mio, prima che giunga la sera / – che la vita è breve come favola – / (dolce amara, tragica solenne) / si compia il nostro anelito / nel miracolo della poesia. Chiaro rimanga, altresì, che la scomparsa di queste due figure non è la loro fine; per tutti è invece l’inizio di un’apertura e di un rinnovato dialogo con il loro lascito! Non farli morire una seconda volta vuol dire continuare a farci interrogare ancora dal loro “testamento” artistico e poetico.
Giacomo Cuttone



Salvino Catania, i colori dell'anima. 
Il saluto della Città all'artista
"I veri artisti non muoiono ma si eternizzano con la loro arte, per Salvino sarà la stessa cosa". Così don Orazio Placenti ha iniziato al sua omelia nel corso del funerale, celebrato questo pomeriggio in Cattedrale, del pittore mazarese Salvino Catania la cui tragica morte ha destato parecchio scalpore in città. Che Salvino Catania fosse conosciuto, ed amato, da persone di ogni età lo si è visto anche nella funzione funebre. In molti hanno voluto dare l'estremo saluto all'artista che aveva deciso di vivere al margine ed in quella sua vecchia casa, un nobile palazzo in piena decadenza, dove ha trovato la morte a seguito di un incendio. L'ultima sua mostra. Una trentina di amici e conoscenti hanno voluto omaggiarlo portando in chiesa e poggiandoli davanti all'altare, dietro il feretro, i loro quadri firmati dall'artista: fantasie cromatiche, crocifissi, fiori e figure partorite dal genio delle sue pennellate; "spontaneista" si definì nell'unica intervista concessa alle telecamere. "Mettiamo di fronte a Dio le nostre opere, certamente Salvino Catania –ha detto don Orazio Placenti- è riuscito meglio di tutti noi. Ci ha costretto ad amare la bellezza attraverso le sue tele, nella sua vita dilaniata dal genio: un distillato di gioia ed ansia di fronte all'esistenza. Un pezzetto della sua persona rimarrà in quanti conservano, adesso con maggiore gelosia, nelle proprie case una delle sue opere". Don Placenti ha espresso il suo pensiero in merito al sentimento che l'artista nutriva per la fede: "la sua fede è rappresentata dagli innumerevoli dipinti dedicati al crocifisso: invidio Salvino perché è stato più bravo del sottoscritto a descrivere la bellezza della figura di Gesù Cristo. Pertanto vi invito –ha concluso il prete- ad un virtuoso complotto affinchè la sua arte possa essere ricordata per sempre, immagino un catalogo completo delle sue opere, una mostra che celebri questo genio generoso che la vita ci ha concesso di conoscere".

Dopo il rito, un lungo applauso ha accompagnato il feretro fino all'uscita della Cattedrale; tanti sorrisi, forse Salvino avrebbe voluto così, hanno salutato per l'ultima volta l'artista".
Un pensiero su Salvino Catania ci è stato concesso da un suo vecchio amico, il prof. Michele Nastasi: "Con Salvino abbiamo frequentato a Roma l'Accademia delle Belle Arti. Eravamo nel '64 o '65. La pittura era l'unica gioia di Salvino, sia addormentava e si svegliava con le sue tele. La sua arte, la sua pittura non è assimilabile a nessun artista, era se stesso e basta; solo i mediocri sono assimilabili. Salvino era la sua arte, unica, irripetibile".


Tratto da da "Dialogi Mediterranei"

Cavalli - collezione privata
Vogliamo dedicare l’editoriale di questo numero di Dialoghi Mediterranei, che apre il nuovo anno, all’amico pittore mazarese Salvino Catania, scomparso il 7 dicembre scorso. Siamo convinti che una rivista come la nostra che viaggia nella rete e guarda al Mediterraneo abbia comunque il compito di dare luogo e radicamento ai ragionamenti che propone, conservando precisi riferimenti territoriali che ne definiscano l’identità. Da qui la volontà di risarcire la memoria di un artista che, seppure ignoto ai più, appartato e ammutinato nel suo orizzonte di provincia, ha dimostrato di saper stare nel mondo e di saper parlare di quel mondo che, secondo la lezione di Rilke, non esiste «se non dentro di noi». Da qui il desiderio di farlo conoscere al di là della riduttiva dimensione locale. Accade a volte che la morte sia drammaticamente simmetrica alla vita, ne sia in qualche modo simbolica metafora, ne spieghi e ne dispieghi epifanicamente il senso ultimo. Il corpo del pittore è stato ritrovato bruciato, divorato dal fuoco di un braciere su cui è accidentalmente caduto a seguito di un fatale malore. Se non generasse qualche crudele malinteso, potremmo dire che, in fondo, Salvino è morto come aveva vissuto, avendo consumato e bruciato la sua esistenza giorno dopo giorno nella quotidiana ricerca della vita, nel libero e anarchico abbandono del suo corpo al gioco dell’invenzione e della divagazione.


Salvino Catania - coll.privata

Salvino ha giocato ai dadi con la vita e con la morte, tra l’ironia della simulazione e l’angoscia della consapevolezza, tra la creativa leggerezza dell’artista e la greve solitudine dell’uomo. Stretto dentro questa tenaglia Salvino si è dibattuto e si è divincolato, ora liberando il corpo dal suo maledetto peso nella grazia di una danza spontanea, ora carcerandolo nel sortilegio degli effetti sedativi delle cure. Nella dialettica tra Dentro e Fuori, ha abitato due universi paralleli, incrociando orizzonti e destini diversi. La sua naturale vitalità, in alcuni momenti trapassata nelle forme di un vitalismo puro e sfrenato, lo ha esposto inevitabilmente alle ferite dell’esistenza e alle sofferenze della malattia, rispetto alle quali è rimasto inerme e disarmato, incapace di cercare riparo o di invocare protezione. La sua vicenda di artista di strada, che nella strada ha vissuto e disseminato il suo corpo, percorrendo in lungo e largo gli spazi della sua città, può spingere qualcuno ad assimilare Salvino Catania ai pittori outsider, a quegli autori irregolari ed eccentrici che ai margini del sistema sociale ed estranei alle logiche del mercato dell’arte si muovono per vie laterali, fuori dai canoni contemplati dalle accademie, lungo linee di fuga e di sconfinamento. Ma Salvino non era un autodidatta né era indifferente alla storia delle Belle Arti.


Salvino Catania - coll.privata
Aveva alle spalle scuole e saperi, scaltrita conoscenza della storia dell’arte e della letteratura critica, raffinata cultura dei linguaggi sperimentali dall’impressionismo all’astrattismo, dall’informale fino alle avanguardie contemporanee. Non era affatto ingenuo né spontaneista, come con aria sorniona tendeva a far credere. Non era privo di ascendenze e discendenze artistiche, di riconoscibili modelli stilistici e di nobili grammatiche estetiche. A ben guardare, sulle sue tele si nascondeva un mélange di allusioni, di riferimenti, di citazioni, non di aride e artificiose repliche ma di originali rifrazioni della memoria e risemantizzazioni di segni, tecniche e figure dei maestri più illustri della cultura figurativa internazionale. Nulla aveva in comune con il Ligabue naĩve – di cui si è scritto – che alla genialità associava il primitivismo di un immaginario naturalistico, la capacità visionaria ad un’asocialità autodistruttiva. Salvino è morto alla stessa età di Ligabue e ha condiviso con lui un’esperienza esistenziale di inquietudine e sofferenza, riconducibile più alla solitudine che al disagio psichico. È vero, anche lui ha coltivato una vocazione totalizzante all’arte ma la sua relazione con la pittura non era mai appagante e catartica ed era, invece, nevrotica e conflittuale, possedendo l’autore un’altissima sensibilità e consapevolezza critica e autocritica. Nessuna ipotesi di equivoca rappresentazione romantica può dunque essere costruita attorno alla figura di Salvino Catania, che non è stato un poete maudit né un artista che ha fatto dell’arte un esercizio trasgressivo, sovversivo o provocatorio, come dire una pratica carica di ribellismo ideologico, ma semplicemente e letteralmente una scelta di vita sempre in bilico tra ispirazione e necessità, una poetica d’inventività e di tensione creativa ma anche di tormentata e disperata interiorità.


Salvino Catania - coll.privata
Non ha coltivato nell’arte una funzione politica di contropotere ma se mai una sua surreale estraneità, una sua anarchica irriverenza per ogni forma dell’autorità costituita come per le sacre scritture dei canoni accademici. Nelle sue migliori stagioni ha dipinto agavi e fiori, palme e conchiglie. Negli ultimi anni, dissolti quasi del tutto i riferimenti alla cultura figurativa, i suoi quadri sono apparsi gremiti di segni elementari, di stridenti contrasti cromatici, di trame pittoriche che sembravano aggrovigliare le linee in percorsi tortuosi e labirintici oppure dipanarle in composizioni intarsiate di orditi colorati e ideogrammi geometrici, in una sapiente moltiplicazione di moduli e simboli destinata a dilatare e incrementare le esperienze percettive. Per la loro originalità compositiva alcuni esiti pittorici potrebbero a buon diritto trovare applicazione nella produzione di tessuti, maglie e arazzi. Spesso, tuttavia, sui soggetti si allungavano le ombre di una sfida corpo a corpo con la materia, con gli oli, con i grumi delle vernici, con le tecniche dell’arte e con l’arte della vita. «Certe mattine mi sveglio e non so se sono vivo o morto. Poi apro la porta ed esco. Sono nato per stare nella strada». Così ebbe a dichiarare Salvino Catania in una intervista del febbraio 2012 ad un giornalista di Repubblica. Nella crisi di urbanità del nostro tempo Salvino è stato abitante consapevole della città, cittadino che ha permeato della sua presenza ogni angolo del centro storico. Ci parrà di intravedere la sua ombra per le strade di Mazara ancora a lungo, ci sembrerà di incontrarlo con la sigaretta in bocca, una tela sotto braccio e una smorfia sul viso. I suoi quadri ci guarderanno ancora dalle pareti dei bar, dei circoli e dei negozi. Nel suo quotidiano vagabondaggio Salvino ha sparpagliato la sua eredità per le strade della città, ha lasciato nelle case degli amici e dei passanti le testimonianze di affetto e di memoria della sua opera e della sua pervasiva e invisibile presenza. Non avendo voluto fare della sua casa il luogo dell’abitare, ove accogliere e raccogliere in una qualche intima stabilità la propria permanente inquietudine, ha fatto della strada il centro sentimentale del suo radicamento, lo spazio elettivo della sua stessa vita. Per le vie di questo mondo, che non lo ha fino in fondo accettato e compreso, Salvino ha transitato da francescano, con la nudità del corpo, la povertà dei beni e la generosità dei gesti. Ci resta il rammarico di quel che sarebbe potuto essere e non è stato, di quanto di potenzialmente inespresso è rimasto irretito e mortificato nell’accidia asfissiante della provincia e nell’urgenza quotidiana del sopravvivere. Ci restano le sue opere che in una dimensione laica della vita sono destinate a sconfiggere la morte e oltrepassare l’effimero trascorrere del tempo.


Questa foto documenta la pittura di Salvino su ceramica, che compì durante il periodo "cristaldiano" (2009 - 20014) delle "Ceramiche" che coinvolse molti artisti locali, e certamente non poteva mancare Salvino che aderì all'iniziativa

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L’ULTIMO RITRATTO 
Lu so’ pittari è discussu e parratu
ma l’estru ci lu retti lu Divinu
in ogni casa c’è un quatru appizzatu
di lu maestru Catania Salvinu.
E quannu ‘nta la tila appitturava
‘na pricissioni di genti ci avia
e pi’ lu quatru chi dunca stampava
la posta p’accattallu si facia.

E c’era puru cu’ lu supplicava
currennucci d’appressu pi’ la via
Salvinu, d’addabbanna si vutava
sintennu già la megghiu antipatia.
Lu quatru mancu mojttu ci lassava
e soprattuttu quannu si ‘nzistia
‘nta ‘na vanedda po’ s’alluntanava
e a piacimentu so’, si lu vinnia.

Cu’ tutta la pittura chi sculava
la tila sutta un mrazzu si mittia
‘na bedda sicaretta s’addumava
e gghia firriannu comu a ‘n’arma pia.
Eloggiu fazzu a ttia granni pitturi
chi ‘nta lu munnu cchiù nun ci nn’è pari
d’appressu ti pujttasti ogni culuri
pi’ ppuru ‘mparaddisu appitturari.

Ma tutti li pinzedda chi lassasti
sustegnu ‘unn’hannu cchiù pi’ fantasiari
e bbistu chi li spaddi ci vutasti
si ponnu sulamenti rassegnari.
La tavulozza si persi ri ‘ntuttu
senza la musa nun sapi arrancari
ogni pinzeddu si bbiri è distruttu
pi’ nun putiri pi’ nnenti spuari.

Li to’ culura ‘mmiscannu di bruttu
‘ncapu la tila si ponnu sciarriari
stintannu puru a pittari ‘stu luttu
la pinziddata si metti a buciari.
Mazara bedda a chianciri si metti
nun ti virennu pi’ strata passari
‘sta tristi e mala nova si permetti
nun ti la voli certu pirdunari.

Cu’ ttanta di trasuta maggistrali
pinzannu a lu cafè chi ti piacia
lu bar, di la chiazza principali
‘nta la so’ pojtta ancora aspetta a ttia.
Ma tu ti nn’abbulasti pi’ Natali
pi’ faricci lu quatru a lu Missia
e salutannu ‘ncapu a lu giojnnali
facisti emozzionari puru a mia.

Lu vantu chi sapisti immortalari
echeggia ‘nta ‘stu nobbili paisi
lu to’ purtentu nun si pò scurdari
e né la vuci to’… pi’ cu’ la ‘ntisi.
                              di Ignazio Giovari 

martedì 14 dicembre 2010

Alcune istantanee fatte a Salvino da vari autori che denotano il suo modo di essere artista sempre. Non amava farsi riprendere in modo banale e si metteva subito in pose che, a suo modo di vedere, dovevano scoraggiare il fotografo, invece nessuno rinunciava e si  creavano delle bellissime composizioni, anche contro le intenzioni di chi lo riprendeva.
... qui in in piazza della Repubblica davanti al bar Garden

... in via Porta Palermo, in uno dei suoi show improvvisati







... davanti alla statua del Santo Patrono 

... al bar, colto di sorpresa, ma la sua fantasia si accendeva subito...



Nella panineria di Nicola Bianco in piazza Matteotti, dove spesso consumava un pasto (panino con panelle)


Seduto davanti all'Unione sportiva Cacciatori, in via SS.mo Salvatore



... in attesa di trovare un compratore...



Dedicato a Salvino da Tonino Titone
In ogni strada di questo paese c'è un nessuno che sogna di diventare qualcuno. 
È un uomo dimenticato e solitario che deve disperatamente provare di essere vivo 
(Robert De Niro, Taxi driver, 1976)
via Porta Palermo
Questa foto da me scattata, sembra il presagio della sua dipartita ed fa da corollario con la poesia di Tonino

Il triste giorno della sua dipartita...




Casa Catania (in pieno degrado)
subito dopo la sua morte

Qualche anima gentile ha portato i fiori...
(nella foto Andrea Santostefano)


... altri, come Mimmo Burgio, hanno dedicato a lui un pensiero






domenica 5 dicembre 2010

Andrea Sciarrino e Vita Bruno

Riceviamo dal figlio Jo

Andrea Sciarrino, terzo di quattro fratelli, nasce a El Aouina (aeroporto di Tunisi ) il 6 febbraio 1923 da genitori siciliani originari di Carini ( Prov. di Palermo). Fu il nonno paterno, Giuseppe, a stabilirvisi tra il 1890 ed 1900 nella zona variando la propria attività da commerciante di cavalli ad agricoltore. Nel 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, tutti gli italiani tra i 17 e 50 anni residenti in Tunisia, furono deportati nei campi di concentramento, essendo questo paese una colonia francese. Andrea diciassettenne, finì a Le Kef, città situata poco lontano dal confine con l’Algeria, dove rimase per circa 45 giorni. L’armistizio siglato dalla Francia con la Germania, permise ad Andrea di fare ritorno a casa. Compiuti i diciott’anni, viene chiamato alle armi. Tra il 2 aprile ed il 13 maggio 1943, gli alleati conquistano la capitale Tunisi. Andrea, prigioniero insieme ad altri migliaia di soldati, è deportato in Algeria, sotto gli inglesi, dove svolge mansioni di meccanico e di interprete per la sua conoscenza dell’arabo e del francese. Inizialmente i prigionieri dovevano essere trasferiti in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma dopo l’affondamento nel mediterraneo di alcune navi inglesi, era stato sospeso tale trasferimento. La fine della guerra in Italia si avvicina ed allora gli inglesi inviano i prigionieri in Italia. Imbarcato ad Algeri, scende dopo due giorni di navigazione a Napoli. Da Napoli viene condotto a Castellammare di Stabia dove rimane per circa 9 mesi e nei giorni seguenti raggiunge Selbagnone (Forlimpopoli FC). Sempre al seguito delle truppe inglesi, mentre segue in moto un automezzo militare, gli succede un incidente nei pressi di Ravenna, procurandosi la frattura di una mano. Liberato alcuni giorni dopo, chiede il trasferimento al distretto militare di Trapani, dove spera di porre fine a questo vagabondaggio per l’Italia: Andrea ha circa ventidue anni. Durante questo soggiorno a Trapani, e venuto a conoscenza che a Mazara del Vallo risiedeva un certo Vito Bruno, carrista nella battaglia di El Alamein, prigioniero conosciuto in Algeria, volle incontrarlo. E così, nel 1945, Andrea, invitato da Vito Bruno, ne conosce la sorella Tina (Vita), allora diciottenne: fu amore a prima vista. Ma la famiglia Bruno, inizialmente non vedeva di buon’occhio Andrea, detto lo “straniero”, ed inviarono la figlia Tina in campagna al fine di farla distrarre e dimenticare il suo innamorato. Ma le informazioni assunte dal padre di lei, attraverso un parente residente in Tunisia, alla Soukkra, lo convinse ad accettare la relazione e così Andrea sposò Vita Bruno il 22 novembre 1947, nella chiesa Madonna della Porta a Mazara del Vallo. Andrea , sempre in attesa di ricevere l’auspicato congedo ed il permesso del governo francese di rientrare a Tunisi, svolge diverse attività nella cittadina siciliana: da autista a motorista sui pescherecci, da bracciante agricolo ad operaio edile. Nel 1951, giunto l’auspicato congedo i coniugi Sciarrino, con due figli a carico, Giuseppe (Jo), nato nel 1948 e Silvestro, nel 1950, fanno ritorno a Tunisi. Ma la guerra ha distrutto case e raccolti, parti delle terre confinanti con l’aeroporto vengono espropriati per il suo ampliamento, e di conseguenza è costretto a cercare lavoro altrove. Nel 1952, nasce Sergio ma Silvestro, affetto di leucemia, scompare nel 1952. Nel 1957 nasce un altro figlio, Silvio, ed infine Maurizio nel 1961. Le difficoltà economiche ed un futuro incerto per i figli, fanno maturare il pensiero di lasciare la Tunisia, dopo una permanenza di tre generazioni. E così, nel mese di settembre 1962, venduto quanto possibile, la famiglia Sciarrino, composta da sei persone, si allontana tristemente da quella terra. La nave che li porterà in Italia, dopo due giorni di navigazione giunge a Napoli; a mezzo autobus, insieme ad altri “profughi”, Andrea, con la famiglia, raggiunge la località Fuorigrotta, dove, in un caserma in disuso viene alloggiato. Qui rimane per circa un mese; alla fine, sempre tramite Vito Bruno, poliziotto a Vercelli, si trasferisce nel capoluogo piemontese, lavorando per vent’anni presso la Caterpillar come meccanico.
L’Amore e la Fede sono stati gli elementi determinanti per i 60 anni di vita coniugale. Nonostante le ristrettezze economiche e le avversità incontrate, essi hanno con notevoli sacrifici, spronato i figli a conseguire un titolo di studio, prepararli alla loro strada, lasciando loro un certa quale indipendenza, vegliando e rassicurandoli quando sbagliavano.


(Foto: anniversario per i sessant'anni di matrimonio). La signora Vita è scomparsa il 04 ottobre 2008)

martedì 16 novembre 2010

lunedì 15 novembre 2010

Valentina Giacalone

Valentina, nonché mia nipote (seconda figlia di mia sorella Anna Maria), ha partecipato in modo onorevole alla trasmissione televisiva L'Eredità condotta da Fabio Conte. E' arrivata in finale ha perduto 120.000 euro all'ultima domanda

Eccola durante le prove


Il marito Dino Mangiaracina con il presentatore Fabio Conte


... conteso dalle belle collaboratrici!